SECONDA PARTE

Dalla seconda metà del secolo scorso furono diverse le catastrofi di varia natura che si avvicendarono nel nostro Paese (alluvioni, frane, terremoti ecc.), palesando l’urgenza della creazione di una normativa di riferimento finalizzata a strutturare un sistema di soccorsi organizzato. Prosegue l’analisi dell’evoluzione della macchina dei soccorsi oggetto della tesi di Laurea di Marina Gagliardi.

Dal dopoguerra agli anni 70 si avvicendarono molteplici episodi caratterizzati da disastri, di varia natura: l’alluvione del Polesine (RO) nel 1951, che vide  partecipi ai soccorsi la Pontificia Commissione di Assistenza, i Militari d’Arma, la Croce Rossa Italiana e i radioamatori. La frana del Vajont il 9 ottobre 1963 dove, accanto all’immediata attivazione degli Alpini e della Croce Rossa Italiana, si resero partecipi il Servizio Veterinario Italiano, la Pontificia Opera  assistenza, il Genio Civile di Belluno, i Corpi Militari, i Vigili del Fuoco, la Polizia Stradale e i Carabinieri. In quel tragico evento si attivò anche la Sanità provinciale, mettendo in allarme gli ospedali di Belluno, Feltre, Agordo e le Case di Cura di Auronzo e Pieve di Cadore.

Il 4 novembre 1966 l’Italia fu colpita da un’altra sciagura, l’alluvione di Firenze, che segnò un triste episodio nella storia italiana, soprattutto per  l’inadeguatezza dei soccorsi, per la particolare assenza di una struttura centrale di coordinamento oltre alla mancanza di sistemi di monitoraggio dei corsi d’acqua, essenziali per preavvisare l’arrivo dell’evento. Fu la prima emergenza ‘mediatica’, seguita in tutto il mondo, grazie all’avvento delle prime reti televisive, che evidenziò con quanta lentezza fossero sopraggiunti i soccorsi, per un’assenza di un sistema organizzato, di un cervello pensante e di una ‘cabina di regia’ che coordinasse gli eventi.

Il mancato preavvertimento dell’evento colse i fiorentini di sorpresa: soltanto dopo sei giorni dall’alluvione, il governo fu in grado di strutturare un sistema di soccorsi organizzati. Ripercorrendo alcuni tratti di questa tragedia insieme al Prof. Elvezio Galanti, già direttore generale dell’Ufficio Relazioni Istituzionali del Dipartimento della Protezione civile – Presidenza del Consiglio dei Ministri, è particolarmente emozionante interiorizzare la sua descrizione dettagliata nel periodico bimestrale ‘la Protezione civile’ – anno 2 n. 10 edizione settembre – ottobre 2012, a cura del Dipartimento della Protezione civile: nello spazio dedicato alla storia della Protezione civile Italiana si può leggere qualche riga del suo toccante racconto: “Il 4 novembre 1966 il bacino dell’Arno, ingrossato da dieci giorni di intense precipitazioni, scatena una delle più pesanti catastrofi della storia nazionale. I fiorentini, sorpresi in casa o nelle strade inondate dalle acque, si trovano a lottare per difendere la loro stessa vita. Il 6 novembre 1966, quando l’Arno si ritira, abbandona Firenze nella sua disperazione, sepolta sotto 600 mila tonnellate di fango. Inizia tutto da qui. Dalla risposta spontanea della gente comune. Dalla cittadinanza attiva’ che, da ogni parte d’Italia, raggiunge Firenze per offrire volontario aiuto a una città in ginocchio. E che evidenzia l’inadeguatezza della struttura centrale dei soccorsi.

Nei primi giorni, infatti, gli aiuti arrivano esclusivamente dagli ‘angeli del fango’ e dalle truppe in stanza in città”. Si percepisce l’assoluta mancanza di in Sistema nazionale di Protezione civile in grado non solo di intervenire efficacemente in emergenza, ma anche di monitorare razionalmente il territorio attraverso una costante attività di previsione e prevenzione. Era ancora in vigore la legge n. 469/61 che assegnava al Ministero dell’Interno i servizi di prevenzione ed estinzione degli incendi insieme alle attività tecniche per la tutela dell’incolumità delle persone e la preservazione dei beni, agli studi,  all’attività sperimentale tecnica e all’organizzazione centrale e periferica dei servizi antincendi e dei soccorsi tecnici.

All’indomani degli ultimi eventi e, subito dopo l’alluvione di Genova del 1970, l’8 dicembre dello stesso anno nacque la prima legge, la n. 996/70, che introduceva il termine ‘Protezione civile’, denominata: “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità – Protezione civile”. In questo caso il concetto di Protezione civile intendeva quello legato al soccorso e all’assistenza alla popolazione ma non ancora a quello di prevenzione.La Protezione civile era concepita come ‘l’attività intesa alla predisposizione concertata, in tempo di normalità, dei servizi di emergenza, di soccorso e assistenza, nonché, al verificarsi delle calamità, ad organizzare in forma coordinata e unitaria, tutti gli interventi delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni, degli Enti Locali territoriali e degli Enti Pubblici istituzionali’. Per la prima volta si parlava di attività condivisa e concertata, oltre che pianificata. La nuova legge prevedeva che l’organizzazione e il coordinamento della Protezione civile fossero trasferiti dal Ministero dei Lavori Pubblici al Ministero dell’Interno che doveva provvedere, d’intesa con le altre amministrazioni dello Stato, civili e militari, e mediante il concorso di tutti gli enti pubblici territoriali e istituzionali, alla predisposizione dei servizi di emergenza, soccorso e assistenza alle popolazioni colpite da calamità naturali o catastrofe. Venne inoltre definita, sempre per la prima volta, la cognizione di calamità naturale o catastrofe, intese come ‘l’insorgere di situazioni che comportino grave danno o pericolo di grave danno alla incolumità delle persone e ai beni che, per loro natura o estensione, debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari’. Si era giunti a un concetto di Protezione civile inteso come predisposizione e coordinamento degli interventi. L’azione di coordinamento del Ministero dell’Interno avveniva in caso di calamità o di catastrofe: in tale contesto, esso assumeva la direzione e impartiva le direttive generali in materia di Protezione civile, mettendo in sinergia tutte le attività svolte dallo Stato, dalle Amministrazioni regionali e dagli Enti pubblici territoriali e istituzionali. La Dichiarazione dello stato di calamità o di catastrofe, avveniva con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministero dell’Interno, anche su richiesta degli organi della Regione o degli enti locali’. Tutti i servizi degli enti pubblici e privati, al fine di assicurare tempestività ed ordine, oltre ad un impiego coordinato, facevano capo al Ministero dell’Interno, che aveva tutta la centralità dell’emergenza. Veniva riconosciuta l’azione solidale del singolo volontario di Protezione civile che si recava ad aiutare le popolazioni calamitate. La legge aveva inoltre previsto la nomina di un commissario, che sul posto assumesse, ai fini della necessaria unità, la direzione dei servizi di soccorso ed attuasse le direttive generali e il coordinamento dei servizi. Solo dopo undici anni e due catastrofici terremoti del Friuli e dell’Irpinia, avvenne di fatto la promulgazione del Regolamento attuativo della Legge n. 996/70. Questo decreto, definito DPR n. 6 Febbraio 1981, n. 66 fu il “Regolamento di esecuzione della legge 8 dicembre 1970, n. 996, recante norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità – Protezione civile”.

Fu totalmente rovesciata l’impostazione della legge n. 996/70 e la Protezione civile fu definita compito primario dello Stato’, precisando e concretizzando meglio il concetto che, al verificarsi di un evento calamitoso, si innescasse il coordinamento di tutti gli interventi delle Amministrazioni dello Stato, delle Regioni e degli Enti Pubblici Territoriali e Istituzionali. Cosa che non era avvenuta durante i due terremoti del Friuli e dell’Irpinia.

Inoltre, per la prima volta, si definiva che l’attività di Protezione civile concernesse anche la prevenzione degli eventi calamitosi mediante l’individuazione e lo studio delle loro cause’. Il terremoto del Friuli, fu determinante per la nascita di strutture operative in seno alla Prefettura e ai comuni. Grazie all’appello lanciato a tutti i sindaci, fu possibile riunirsi in un Centro Operativo per dare impulso a una forma di sinergia, essenziale per garantire delle risposte concrete, che ruotassero sulla trasversalità tra le diverse strutture operative: nacque il ‘modello Friuli’, che fu preso come esempio e punto di riferimento sia nella gestione dell’emergenza che per la ricostruzione. Notevole fu la differenza tra la gestione del sisma in Friuli e di quello in Irpinia, così come diversa fu la modalità di ricostruzione del tessuto urbano: nel Friuli Venezia Giulia ci fu una diversa metodologia di intervento, grazie al fatto che vennero da subito coinvolti il governo regionale e i sindaci dei comuni colpiti. Già la mattina del 7 maggio, il Presidente del Consiglio dei Ministri Aldo Moro e il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, affidarono urgentemente al Sottosegretario di Protezione civile, Giuseppe Zamberletti, il ruolo di commissario straordinario per l’emergenza. Sull’esempio del Centro Operativo di Majano costituito spontaneamente dai radioamatori volontari, durante il terremoto del Friuli, Zamberletti istituì i ‘Centri Operativi’, al fine di collocare in ciascun comune colpito un organismo direttivo, un tavolo che facesse da cabina di regia, occupato dai rappresentanti delle Amministrazioni pubbliche e private e con a capo il sindaco, che decideva sulle operazioni di soccorso.

L’efficienza dei soccorsi si sperimentò grazie alla presenza dei Centri Operativi Comunali che potevano coordinarsi finalmente tra di loro e con la Sala Operativa Generale, istituita presso la Prefettura. Veniva così favorito il flusso delle informazioni in tempo reale, essenziali per innescare un sistema di coordinamento nelle attività di soccorso. Zamberletti diede vita a nove Centri Operativi di Settore (COS) presso alcuni Comuni friulani. Ogni COS coordinava mediamente l’attività di una decina di Comuni, pari a circa 40.000 abitanti per ciascun Centro Operativo. Fu un’innovazione straordinaria: nacque il primo modello decentrato dei soccorsi. Il tessuto sociale e urbano, grazie alla sinergia dimostrata dalla collaborazione della popolazione, fu ricostruito in quindici anni.

Questo nuovo e caratteristico ‘modello friulano’, si tentò di importarlo nei successivi eventi, ma in quello dell’Irpinia la gestione dell’evento sismico fu un vero fallimento, sia durante l’emergenza sia nella ricostruzione. L’inefficienza era dovuta al fatto che in Irpinia, per ragioni legate ad una differente realtà storica e organizzativa, i primi soccorsi videro una mancanza totale di coordinamento, che condizionò l’operato del volontariato, delle strutture regionali e delle autonomie locali: molti volontari si recarono spontaneamente nei luoghi colpiti senza aver ricevuto disposizioni e precisi obiettivi operativi da parte del Ministero degli Interni.

Fu un caos totale, testimoniato da un’infinità di documenti e anche dalla rivista “Protezione civile – anno 1 n. 5” nella sezione ‘Storie’ dedicata al terremoto dell’Irpinia, con il capitolo intitolato Irpinia 1980, una riflessione a 31 anni dal terremoto”, dove il narratore racconta che “il 23 novembre è una data che l’Italia non dimentica, e ogni anno è occasione per raccontare l’impegno solidale di quanti, da ogni parte del paese, sono accorsi a prestare i primi soccorsi, affiancando i corpi dello Stato…”. Memorabile fu l’intervento del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che, dopo essere stato in mezzo alla gente terremotata, reclamò la mancanza dei soccorsi, oltre che una malsana politica di prevenzione, proferendo: “Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. Se qualcuno vi ha speculato, mi chiedo, costui è in carcere? Non vi sono stati soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci: ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazioni, i sepolti vivi”. Particolare fu il suo ‘Fate presto!’, pronunciato davanti alle macerie dell’Irpinia terremotata e riportata sul Mattino di Napoli il 26 novembre 1980. Il Friuli e l’Irpinia furono ‘la goccia che fece traboccare il vaso’, determinanti per la nascita del Sistema nazionale di Protezione civile e del volontariato organizzato, improntati sui concetti di previsione e prevenzione.

FINE SECONDA PARTE

Università degli Studi di Macerata Facoltà di Scienze Politiche – di Marina Gagliardi

 

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